IX

Il periodo francese

Nell’aprile del 1762 il Goldoni lasciava Venezia per trasferirsi a Parigi dove era stato invitato già da tempo e dove lo attraeva non solo l’interesse cosí vivo per la capitale della civiltà europea di quell’epoca, e la possibilità di nuovi successi, di nuovo lavoro, ma anche l’occasione di una nuova svolta nella vita e nell’arte dopo che aveva esaurito l’eccezionale impeto creativo del periodo ’60-62. Furono sí le polemiche con il Gozzi a dargli una spinta decisiva a partire, ma fu piú in profondo la sensazione di avere concluso una fase della sua arte e di dover cercare alimento in nuove esperienze[1].

In realtà se l’esperienza parigina frutterà singolarmente per i Mémoires, non si può dire che il nuovo contatto con gli attori della Comédie Italienne e quello con il pubblico della corte e della città desse al Goldoni un particolare stimolo. Egli fu costretto dalla identificazione francese della commedia italiana con il giuoco farsesco e con l’intreccio puro a ripiegare sugli scenari, a ricorrere alle risorse della recitazione a soggetto con comici lontanissimi dall’educazione necessaria per soddisfare le sue esigenze (e quello che piaceva in città non piaceva a corte, come accadde con Le fils d’Arlequin perdu et retrouvé). E nella difficoltà e nell’esitazione fra il gusto francese vero e proprio e quello a cui i francesi riducevano la commedia italiana (ignorando pienamente la vera gloria goldoniana), il poeta si trovò nella condizione di dover fare compromessi e passi indietro, fra riprese di scenari e tentativi di commedie scritte ma con maschere e con forte giuoco di intreccio, come fece con l’Amore paterno, di cui intanto dava al pubblico un estratto in francese.

In questa commedia il Goldoni sembra ritornare, per quanto con un’abilità che appare persino capace di auto-ironia, ad un vecchio giuoco di colorismo patetico-buffonesco con effetti grotteschi (l’amore della delicata Camilla per il rozzo Arlecchino) e con facili caricature di «preziosi» ignoranti. E mentre poi nel piú impegnativo Matrimonio per concorso (che fu scritto anche in francese e con il titolo Les deux italiennes), destinato alle scene di Venezia, il Goldoni si divertí in un tipico «imbroglio» da dipanare agilmente, nella trilogia intitolata Les aventures de Camille et d’Arlequin (parte scritta e parte a soggetto) trovava un momentaneo equilibrio fra il gusto francese, le possibilità dei suoi comici e il proprio bisogno di ripercorrere la strada che aveva percorso da giovane dalla commedia dell’arte alla commedia organica.

Il canovaccio francese ci appare certo piú aperto al gusto del romanzesco e del lazzesco, mentre, nella riduzione in commedia scritta italiana, la trilogia di Zelinda e Lindoro ci mostra come per il pubblico italiano il Goldoni potesse piú facilmente prescindere dal buffonesco e puntare sul giuoco sentimentale anche troppo scoperto e fastidioso (specie nelle due ultime commedie: Le gelosie di Lindoro, Le inquietudini di Zelinda) e sulla bellezza della coerenza scenica, delle soluzioni sceniche: come la bella apertura della prima commedia (Gli amori di Zelinda e Lindoro) con i due protagonisti che parlano in gran segreto mentre nell’armadio li ascolta proprio Fabrizio dalla cui curiosità essi cercano di allontanarsi.

Si può notare in questa trilogia, come poi negli Amanti timidi (commediola breve che egli disse adatta per una società di dilettanti: «giocosa, modesta»), che il Goldoni, a parte certe riprese infelici di schemi di figure patetiche e virtuose, era venuto a puntare – in coincidenza con le richieste francesi – sull’«imbroglio», sul disegno di azioni lievi, minute, legate con equivoci e sorprese (negli Amanti timidi gli scambi dei due ritratti[2]); ed è in questa direzione che ebbe nascita quell’opera di singolare finezza ed abilità compositiva (ma non di vera poesia) che è Il ventaglio.

Concepito prima come scenario per il teatro italiano di Parigi (dove fu recitato male e male accolto dal pubblico) il Ventaglio fu poi nel 1764 scritto totalmente in italiano e nel ’65 rappresentato a Venezia. Il Goldoni ebbe coscienza della singolare perfezione tecnica di questa commedia e si preoccupò giustamente dell’esecuzione teatrale («Tutto dipende dall’esecuzione») in un’opera in cui la maggior forza è nel correre dell’azione materializzata nel ventaglio che passa di mano in mano, nella sua natura di «moto perpetuo», di scena sempre popolata di personaggi in azione, ora in folla, ora in uno snodarsi da staffetta, in cui il passare dell’azione di battuta in battuta (e tutte brevissime) raggiunge spesso la facilità artificiosa di un giuoco di prestigio, la fragile forza di un sottilissimo e nitido ricamo.

Perfetta nel suo svolgimento come un congegno di orologeria (se pure si possa notare qualche ristagno nel III Atto), perfetta come taglio delle piccole scene e nell’affollarsi e sfollarsi della scena calcolati minutamente[3], la commedia sembra piuttosto il capolavoro di un artista che ha raggiunto il culmine della sua forza di calcolo e di abilità, ma che ha perduto le qualità piú profondamente poetiche del suo animo. E ciò non tanto perché egli ricorra qui a ripetizioni chiare di suoi precedenti schemi di ambienti, figure, situazioni[4], quanto perché una lettura, attenta anche alle risonanze teatrali delle voci e del loro intreccio, dell’atmosfera che possono creare e del valore che possono dare al correre perfetto dell’azione, non può non avvertire un’animazione tanto piú fittizia ed astratta, un sapore tanto piú pittoresco che poetico, un sorriso piú calcolato che istintivo e insomma una sostanza poetica ed umana tanto meno vibrante e genuina che nelle Baruffe alle quali piú facilmente la vastità del disegno, la numerosa presenza di personaggi può fare pensare. E gli stessi personaggi sono interessanti per la loro identificazione sociale (essa stessa però tutt’altro che carica di elementi eversivi o prementi se il ridicolo del conte di Rocca Marina consiste piú nella sua condizione di nobile spiantato, incolto e laborioso e richiamantesi invano ai suoi «colleghi di classe», che non in una vera rappresentatività di nobile tout court) e se il risentimento «contadino» di Giannina non è sempre una connotazione piú spiccata di ragazza restia, gelosa del suo onore, nervosa per quel suo desiderio di maritarsi e sottrarsi alla tutela del grossolano fratello che poi la fa scendere facilmente a patti con la sua stessa fierezza. D’altra parte essi sono giustificati nel minimo scavo della loro funzione rispetto al ritmo rapido e al prevalere dell’azione, ma (mentre questa assume una libertà piú intellettualisticamente che poeticamente gratuita) proprio rispetto ai personaggi delle Baruffe essi hanno un tanto minore slancio intimo, una tanto minore freschezza di timbro.

Non parliamo di personaggi come Crespino, Coronato, Limoncino, piccole vignette senza una loro voce e immerse in un clima mediocre di un paese quanto mai convenzionale e scialbo, ma anche Giannina, spesso molto vantata per la sua rustica fierezza, è in realtà piú figurina da melodramma giocoso che vero personaggio. Si può sentire di piú la comicità della figura del conte di Rocca Marina (con gli echi numerosi, ma assai equilibrati in lui, di precedenti figure goldoniane), come in genere si può notare l’esplicita ricerca di spirito nelle battute, ma tutto alla fine si risolve piú in nitidezza di brio che non in vero slancio comico, in quella gioia vitale che si fa tenerezza e sorriso[5] nelle grandi commedie veneziane. E si noti ancora come di fronte all’armonia di queste la misura sia qui piú scopertamente simmetrica e quello che ci appare il merito della commedia (l’estrema perfezione del disegno dell’azione) divenga insieme il suo forte limite: quasi una soluzione geometrica e il compiacimento dell’artista squisito nel dimostrare pienamente la sua possibilità di annodare e sciogliere, di far muovere ed agire questo piccolo mondo di grazia comica e di perfezione pittoresca.

Certo, ripeto, qui il Goldoni raggiunge una raffinatezza artistica, che va pur convenientemente calcolata in quest’ultimo periodo della sua attività, ma non quella cordialità e densità poetica di cui pare cogliersi un ultimo riflesso piuttosto in quella commedia veneziana scritta a Parigi che ebbe complessa elaborazione e segnò l’abbandono da parte del Goldoni di ogni impegno con il teatro dei comici italiani in Francia. Si era trattato dapprima (1764) di uno scenario francese (Arlequin, dupe vengée) che poi il Goldoni aveva svolto in una commediola italiana per l’Albergati Capacelli, La burla retrocessa nel contraccambio, che a sua volta, alla fine dell’anno, fu ripresa e trasformata nella commedia in veneziano Chi la fa l’aspetta o I chiassetti del carneval.

Ed è proprio interessante il confronto fra lo scenario e la commediola per dilettanti eruditi da una parte e la commedia veneziana dall’altra: nelle prime una struttura piú rigida e dominata dalla chiave (il ritratto di Arlecchino, il ventaglio, ecc.) che il burlatore ha perduto, senza il contrappunto della servetta, senza gli elementi piú ariosi e poetici che nella commedia in dialetto si legano ad una concezione piú vasta e meno astratta, densa di vita e di quella simpatia per gli uomini e le loro cose che qui assume quasi il valore di un recupero della realtà prediletta, gustato persino eccessivamente, come nella famosa ordinazione del pranzo all’oste, nella scena 14 del I Atto.

Certo anche la commedia veneziana ha un ritmo piú allentato e finisce nel III Atto in una scena d’insieme piú chiassosa che viva, ma nel suo insieme è opera ben interessante e mostra come la via vera del Goldoni non fosse l’imbroglio in sé, l’intreccio puro: e infatti, nel passaggio fra lo scenario e la commedia pur di letterato erudito da una parte e la commedia veneziana dall’altra, si avverte un cambiamento profondo quando la stessa burla diviene il pretesto di una rappresentazione animata di vita veneziana, di una casa e di una situazione familiare con il suo tono di letizia e di intimità cosí vivo anche in quella bellissima scena fra realtà e fantasia in cui i padroni tornano a casa e avvertono un che di insolito, un odore di pranzo consumato, e nella cucina trovano oggetti non loro di cui non sanno spiegarsi la provenienza.

Chi la fa l’aspetta sembra un capolavoro mancato e, mentre denuncia una disabitudine del Goldoni a reggere insieme, in questo periodo, disegno e rappresentazione come aveva fatto nelle grandi commedie veneziane (la sua arte evita ora la vera complessità a favore della linearità come nel Ventaglio), costituisce anche la riprova di come la poesia goldoniana richieda assai di piú che non ricami sottili e perfetti, puri ritmi d’azione astratti ed esangui.

In Chi la fa l’aspetta colpisce fra l’altro l’elemento di sorpresa quasi fiabesca e magica (il ritorno citato dei padroni nella casa in cui a loro insaputa si è dato un pranzo), ma il Goldoni volle addirittura costruire sul fiabesco una intera commedia, Il genio buono e il genio cattivo (1767), a gareggiare con le fortunate fiabe drammatiche di Carlo Gozzi. Ma l’interesse di questo pasticcio teatrale, non privo di buoni spunti, è soprattutto documentario (allegoria del suo desiderio di rivedere Venezia, satira di vari paesi, moralità del «contentarsi»), e questa prova rimase a sé (anche se fortunatissima sui palcoscenici veneziani), mentre il vecchio artista rimaneva a lungo inoperoso.

Fu solo nel 1771 e nel 1772 che egli tornò al teatro per scrivere in francese Le bourru bienfaisant e L’avare fastueux. Si trattava di una prova ambiziosa da parte dell’italiano, che aveva ormai rinunciato al ritorno in patria e desiderava far sentire la sua capacità di scrivere in buon francese e secondo il gusto francese del tempo. E se Voltaire disse per il Bourru che si trattava di commedia «très gaie, très purement écrite, très morale», si può osservare che il classicismo, il decoro formale di quella commedia era veramente intonato al gusto francese di regolarità e di decoro, di gaiezza spiritosa, ma composta e chiara.

Abilissima prova e documento dell’adattabilità del Goldoni, Le bourru bienfaisant (tanto piú scialbo nella versione italiana del Burbero di buon cuore) è commedia dignitosa piú che vitale e testimonia come nella vecchiaia le qualità poetiche fossero andate sempre piú diminuendo di intensità a favore di una sicurezza di costruzione che non soffre ancora incrinatura (e in fondo è cosí anche per l’Avare fastueux, artificioso, noioso, ma privo di vere cadute tecniche); il disegno è anche qui perfetto nella ripresa dello schema essenziale della Casa nova.

Ma il confronto con la Casa nova è appunto significativo: qui tutto è, se si vuole, piú chiaro, spartito, geometrico, ma tutto è anche piú opaco, astratto, e sembra che la stessa sicurezza dei caratteri sia ottenuta attraverso una mimesi intellettualistica di quello che una volta era un istinto geniale.

Sicché, se sotto il decoro e la forza compositiva si vuol ritrovare il piú vivo spirito goldoniano anche in questa fase senile, si abbandonino queste ultime opere teatrali e si torni a certe incantevoli pagine comico-narrative dei Mémoires da cui siamo partiti per individuare, prima che nell’opera teatrale, i tratti essenziali dell’animo poetico goldoniano.


1 Si veda sul periodo francese lo stimolante saggio di R. Scrivano, Goldoni tra Francia, Italia e Venezia, in Saggi di letteratura italiana in onore di G. Trombatore, Milano 1973.

2 E nel relativo canovaccio francese il titolo stesso rilevava il soggetto dell’equivoco: Le portrait d’Arlequin.

3 E si pensi allo stesso inizio con la scena muta che presenta la piazzetta del villaggio con tutti i suoi abitanti ed alla ripetizione piú animata della scena muta all’inizio dell’Atto III, che hanno il valore di una decisa sottolineatura della volontà di complessità e di chiarezza dell’autore e portano un fragile fascino di scena marionettistica in cui la parola ritorna di colpo a umanizzare le figurine in muta azione.

4 Per esempio dalla Bottega del caffè: la situazione di Candida ricorda quella di Eugenia quando per sdegno sta per darsi ad altro sposo, la figura del conte sfrutta elementi del marchese di Forlipopoli, di Don Marzio, ecc. Si ricordi che per certa ambientazione paesana, del resto assai convenzionale, sono presenti ricordi di melodrammi giocosi come Amore contadino e Amore artigiano.

5 E qui invece si ritorna con arte piú sottile al gioco di contrasti patetico-comici, come quando nella scena 8 dell’Atto III Evaristo dice: «Quanto meglio saria per me che terminassi questa misera vita»; e Giannina commenta: «Se ha volontà di morire, basta che si raccomandi allo speziale».